Lhasa da Sola

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domenica 7 febbraio 2010

Noi non siamo un patronato, zero a uno.

E improvvisamente.
E improvvisamente mi trovo nel vecchio stadio Appiani.
Mi trovo improvvisamente ad un passo da Prato della Valle, seduta sugli spalti a vedere la luce trasversale di una prima giornata di sole, rimbalzare sull'erba più veloce del pallone bianco. Sono avvolta nel mio storico cappotto grigio, che mi stava piccolo già quando era nuovo. Ho un maglione verde e ampio, un capello beige di viscosa, i jeans e le scarpe brutte color argento. Sono travestita da una che ci sta dentro, e si capisce per lo più dagli occhialoni da sole, anno 1968. Han resistito tanti anni prima di essere portati con questa finta nonchalance.
Sono seduta dico,
ed ho un bicchiere di rosso in mano.
Avremmo fatto bene a prendere la grappa con il caffè caldo dico.
Mi piace come sei vestita oggi dice Lui.
E ha la solita luce furba di chi sembra sempre esserci stato. Mi racconta che è la seconda volta in vita sua che viene all'Appiani, la prima sarà stata quando aveva 7, 8 anni, che anno era? , ed io mi emoziono ad immaginarlo magro e con gli occhi vivi, con un'espressione un po' così. Ci giocava il Padova, contro la nazionale dell'esercito. E' un altro tempo, come al solito non ero ancora nata, o stavo per nascere, insomma c'ero quasi.
Sono circondata da gente che beve vino, fuma e ride, tutto in quest'ordine. Ed io fatico nel mio atteggiamento mimetico, mi aspetto che indichino da un momento all'altro nella mia direzione, che dicano che sono diversa, che credo in qualcosa, che non ho da stare lì. Però canto e batto i piedi e faccio un gran casino, e guardo di fronte a me quella prima luce.
Il pallone rimbalza e corre in fasci di immagini.
Siamo sotto di un goal.
Il campo di calcio è sempre lo stesso, e mi chiedo come mi sia venuto in mente di essere entusiasta all'idea di guardare un campo sempre uguale, adesso che tutto è diverso.
Un giocatore si scalda prima di entrare. Corre a bordo campo con la stessa aria da soldato, con la tuta dell'adidas, le scarpette rosse ed un cappellino nero calato a coprire gli occhi. Io, di riflesso, schiaccio gli occhiali da sole contro al naso, aspettandomi che si appannino, o che coprano gli occhi meglio del cappellino.
Ci sono un sacco di coppie con bambini piccoli, arrotolati dentro a coperte o passaggini multicolore modello caritas che lanciano mille segnali, ma tutti miseramente nella stessa direzione. Tutto grida.
Noi non siamo un patronato!

Vedo arrivare Ayame.
Sorseggia qualcosa nel suo perfetto equilibrio spaziotemporale. Il bicchiere di plastica la impreziosisce.
Non la conosco, ed ho paura che sentirla parlare romperebbe l'incantesimo della sua contemplazione.Vado spesso nel suo locale indie, e la guardo piano, silenziosa. L'ho vista stanca,con la matita nera a cerchiare le occhiaie chiare, sorridente, in imbarazzo. L'ho vista indurirsi quando un ragazzo agghiacciante le disse qualcosa di stupido. E' una nippo, ma molto italica, e non posso immaginarla sbagliata perchè un po' mi assomiglia o un po' vorrei essere lei. Ayame ha i capelli neri, legati in alto. Io invece ho tagliato i capelli cortissimi, ed ho una frangia irregolare che le starebbe bene. Baratteremo la sua coda con la mia frangetta, il suo cappotto grigio per il mio cappotto grigio, i suoi occhi giapponesi a mandorla, per i miei occhi arabi a feritoia. Le vene celesti dei suoi polsi per le vene celesti dei miei.
Si siede nelle gradinate, e la guardo sbadatamente la nuca. Ha una nuca fastidiosa.

Un'altra ragazza la guarda, e lei sì, è un fantasma. Ha i capelli castani, slegati sulle spalle, e una impostazione freak molto curata. La conosco, non so chi sia. Ha delle calze colorate e mi lancia delle occhiate sicure, come di chi condivide un segreto. Il nostro segreto è che una volta le ho chiesto da accendere e non aveva nulla per farlo.
Io ho parlato con lei, dice Lui.
La conosci perchè è uguale a tutte le ragazze del mondo, aggiunge.

Disma resta lontano, con il cappuccio tirato su. Ha il retrogusto del vino che avrà bevuto ieri, il maglione di Disma e gli occhi a stalattite di Disma. Piccoli sorrisi gli si conficcano nella fronte, parla piano, lo si sente a stento. Ad un tratto mi chiede qualcosa. Ma non importa, è una domanda retorica a cui ha già risposto da solo. Rivolgermi l'attenzione gli è servito a farmi capire che esisto, che ho un corpo ed un cappello a coprirmi, che non sono congelata nella solita espressione sterile ed impostata.Quel sorriso ebete e cortese che tanto ci indispone. Mi ha dato una sberla sui denti con le sue solite cazzate sibilate, e lo ringrazio affettuosamente con una sincera risposta banale.
Siamo sempre sotto di un goal.

Ed io ripenso alla storia del treno mentre batto i piedi ancora più forte contro gli spalti, e la partita cresce nei minuti finali. Perdiamo ed applaudiamo,
ed il fischio del treno ed il vento del nord sono la stessa cosa.

Non sono io che perdo il treno.
E' il treno,
che perde me.

1 commento:

  1. Disma l'onnipresente... anche nei momenti meno opportuni!
    che bello rivederti, anche nel virtuale!

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